Qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza Ruby-ter, con le quali il tribunale di Milano – con una pronuncia da incorniciare – ha spiegato come l’assoluzione degli imputati non fosse affatto dovuta ad un cavillo, ma a fondamentali regole di civiltà giuridica. La premessa è che se nei confronti di una persona sono emersi indizi di reità – e ciò a prescindere dal fatto che sia indagata – l’autorità giudiziaria non può trattarla come un mero testimone (ossia chi, con obbligo di verità, è chiamato a riferire ciò che è a sua conoscenza), dovendo, al contrario, riconoscerle una serie di garanzie, tra le quali l’avviso della facoltà di non rispondere (diritto al silenzio). Nel caso Ruby, nonostante fossero emersi nei confronti delle imputate plurimi indizi di reità ben prima delle loro dichiarazioni, le stesse erano state esaminate nelle forme previste per i testimoni anziché in quelle previste gli indagati. La questione, lungi dall’essere un cavillo, è di pura sostanza e il tribunale ci ha tenuto a precisarlo in maniera netta: “qui non si discute di un mero sofisma, di una rigidità processuale o di una sottigliezza tecnica priva di contenuti: tutelare il diritto al silenzio significa assicurare l’effettività della garanzia di un principio che innerva l’essenza del sistema processuale e affonda le radici direttamente nel diritto di difesa, costituzionalmente presidiato e pietra d’angolo…
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