Dal romanzo di Sophie Mackintosh si viene risucchiati. Una distopia sulla mortificazione del corpo, grandiosa nel creare un senso di spaesamento controllato nei lettori
Ci dev’essere, nella mortificazione del corpo, qualcosa di misteriosamente affascinante, oltre a qualcosa di angosciante e respingente, che fa sì che La cura dell’acqua di Sophie Mackintosh (Einaudi) sia un romanzo da cui si viene risucchiati. La sensazione, che coinvolge testa e viscere, è quella di essere in attesa che qualcosa di sublime e di terribile si stia per compiere, come in Melancholia di Lars Von Trier in cui la terra sta per collidere contro un pianeta e le ultime ore dei protagonisti mescolano i nervosismi della quotidianità con quelli della fine imminente e per paradosso quasi dimenticata.
Sophie Mackintosh dal canto suo – con impressa nella mente la lezione di Atwood – immagina la vita reclusa di tre giovani donne, Sky, Lia e Grace, messe al riparo dalla vita “di fuori” da Mamma e da King, il padre, attraverso il confinamento in un luogo bordato dal mare e dalla foresta e soprattutto attraverso una serie di pratiche purificatrici volte a immunizzare le ragazze dal provare sentimenti, soprattutto nei confronti degli uomini. Come fosse un’equazione: “I sentimenti forti ti indeboliscono, ti aprono il corpo come una ferita. Per tenerli a bada ci vogliono vigilanza e terapie regolari”.
La cura dell’acqua consiste nel bere bicchieri su…
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